Nelle corti rinascimentali l’uso delle spezie, dei profumi e soprattutto il loro legame con l’alchimia e la ricerca sapienziale è consuetudine. “Alchimia” (dalla stessa radice araba da cui sarebbe poi derivato il termine “chimica”) affonda le sue radici in una tradizione millenaria trasmessa prevalentemente per via orale e la cui simbologia (sia scritta che pittorica) ci sfugge, oggi, quasi del tutto.

L’alchimia riguarda la trasformazione di sé stessi, la propria purificazione attraverso l’uso di sostanze (spesso nascoste in suggestive simbologie) che prevedono la lavorazione in laboratori con alambicchi e strumenti, precursori della realizzazione moderna dei prodotti: in questo mondo, a cavallo tra esoterismo medievale e artigianato merceologico di stampo preindustriale, ha un posto preminente l’allora nascente cosmesi.

Questo valore alchemico può essere considerato, per esempio, parlando delle tinture per i capelli: tra le diverse tipologie di tinture di biondo usate nelle corti del Rinascimento – una delle quali troviamo descritta da Leonardo e ampiamente rappresentata in sue opere pittoriche – è quella del biondo dalla tonalità molto calda e dorata, una colorazione con un valore non solo estetico ma anche fortemente simbolico e quindi legato all’alchimia e alla sua idea di oro in quanto simbolo di spiritualità assoluta, trascendente.

La nascente cosmesi rinascimentale è fitta di aspetti molto suggestivi che ci rimandano a un mondo magico, un percorso iniziatico di cui oggi possiamo soltanto in parte rilevare la bellezza e l’arcana profondità simbolica. La donna stessa, la sua rappresentazione, sono simboli universali e messaggi di una cultura oggi perduta ma dalla valenza, sacra o profana che fosse, immensa.

L’elemento più importante risiede nella promozione della donna grazie all’estetica, quantomeno nel mondo dell’élite: “Con l’Europa del Rinascimento, il “secondo sesso” diventa il “gentil sesso’”.

Per la prima volta la donna si avvicina alla perfezione, parzialmente affrancata da una tradizione che la demonizzava.

Lo scrittore Agnolo Firenzuola (1493-1543), nel suo Dialogo delle bellezze delle donne (1541), sottolinea l’inutilità degli arti inferiori per stabilire la bellezza. Questi sfuggono, negli abbigliamenti del 16° secolo, al di sotto della vita, sostenuti da “guardinfante” che, con le loro stecche di ferro o di legno, trasformano sempre più la gonna in una sorta di piedistallo del busto, sottolineando l’importanza del “sopra”. Il “sotto” rimane principalmente un sostegno, un basamento quasi immobile del “sopra”.

Anche un’altra logica rafforza questa visione gerarchizzata: l’ordine estetico orientato dall’ordine cosmico.  La bellezza del mondo, le cui regioni celesti rappresenterebbero la perfezione, serve da modello per la bellezza del corpo: il cielo cosmico e il cielo corporeo, nella cultura rinascimentale, corrispondono. Il busto, il volto, le mani sono le uniche zone a richiamare l’estetica fisica che si scopre “principalmente in una parte: e questa è la parte superiore, che guarda verso la luce del Sole”. Esse “sono vicine alla natura degli angeli”.

Infine gli occhi che sono, nel 16° secolo, incarnazione degli astri, “luce di accecante fulgore”. Dagli anatomisti del tempo, gli occhi sono dotati “di una forza propria, del bagliore scintillante come quello dei gatti o dei lupi” [1], essi non sono che un faro supposto condurre una nave. Lo stesso Leonardo, in svariati punti dei codici e dell’epistolario, ma anche e specialmente nel Trattato della pittura, definisce gli occhi “lo specchio dell’anima”.

Nel Rinascimento, le principali Corti sono collegate tra loro e Leonardo è a stretto contatto con le più importanti figure femminili del tempo: Isabella d’Este, Caterina Sforza, Caterina de’ Medici, Lucrezia Borgia. Per quanto riguarda la cosmesi, le formule e i prodotti sono oggetti di una vivace rete di scambi tra le corti stesse, legate da rapporti di parentela e relazioni diplomatiche, spesso al servizio di una condivisa sperimentazione che interessa alchimia, farmacia e botanica.

[1] Baldassarre Castiglione, Il libro del Cortegiano, 1528

Negli anni della permanenza di Leonardo a Milano, la città è uno dei centri dell’Occidente maggiormente attenti alla cura dell’aspetto, del corpo e ai profumi.  Alla corte di Ludovico il Moro, Leonardo si occupa di organizzare feste, di disegnare abiti e costumi; inventa tessuti, gioielli e profumi. Lui stesso molto attento alla cura di sé, si dedica alla creazione di fragranze sia maschili che femminili.

“L’amore dei profumi in tutta Italia, “divenne delirio” (…). Dalla berretta alle scarpe tutto si profumava: i guanti, così che a Milano era un’unica università dei profumieri e dei guantai: le calze, le camicie, perfino le monete. Quasi ciò non bastasse, si portavano sulle persone oggetti fatte di paste odorifere, si tenevano in mano corone d’ambra (…), bossoletti d’osso con profumi e gli inventari notano aghi da testa d’ambra e monili con perle e bottoni d’ambra e orecchini con peri d’ambra. Nei bagni si infondevano muschio, ambra, aloe, mirra, menta, narcissino, mirabolano, cinnamomo, ammomo e altri profumi che si vendevano più che a peso d’oro. Si arrivò a profumare persino le mule su cui si cavalcava” [1].

Non mancano, sulle tavole signorili milanesi, gli stecchi da denti profumati e i mazzetti di fiori per ornare e profumare la mensa. A Milano è molto diffuso, come a Venezia, l’uso di profumarsi e antica è la consuetudine dei barbieri che vendono cosmetici e profumi. Qualcuno, al servizio della corte, si fa chiamare “Magistro da profumi” e vende alle dame boccette di miscele per biondeggiare le chiome, moda già comunissima a Venezia.

Da una lettera rinvenuta nell’Archivio di Stato di Milano, datata 18 novembre 1473, si evince che Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, fa uso di polvere d’ireos e di viole facendo incetta delle qualità migliori. Alla Corte di Ludovico il Moro accorrono barbieri e profumieri da tutte le parti d’Italia: nel 1486 è barbiere di corte un certo Giuliano di Imeratici di Alessandria che ottiene uno spazio nella torre dell’orologio di Vigevano per aprirvi bottega e per abitazione. In seguito, un certo Bartolomeo de Scaffi, detto Giovanni Ipella, è barbiere di Ludovico e, il 24 febbraio 1492, diventa cittadino milanese. Nel 1491, Ludovico il Moro istituisce il consorzio dei barbieri.

“Quando Isabella d’Este mandò in dono dodici paia di guanti – una rarità allora – alla regina di Francia la quale, non trovandone altri, usava certi suoi guanti assai frusti, pensò bene, perché mantenessero le mani morbide, bianche e profumate, di cospargerli all’interno di certa concia grassa. Nel viaggio la concia si alterò e i guanti arrivarono a destinazione spandendo intorno un odore tutt’altro che piacevole. Ebbene, Sua Maestà la Regina li accolse con grandi manifestazioni di giubilo e per poco non fu lieta di quell’odore di rancidetto legato a così nuova espressione di modernità, in un dono che le veniva dalla gentile marchesana fonte et origine di tucte le belle foggie d’Italia, come la chiamava la regina di Polonia” [2].

[1] [2] Francesco Malaguzzi Valeri, La corte di Ludovico il Moro, 1913